Questa volta l’ha spuntata mia moglie, come spesso accade per la mia incolumità. Dirò subito che il film non mi ha esaltato, ma non mi è dispiaciuto, diciamo che non mi ha fatto né caldo né freddo. Diretto dal regista inglese Rupert Goold, è tratto da un dramma teatrale incentrato sugli ultimi mesi di vita dell’attrice e cantante Judy Garland, interpretata da Renée Zellweger.
Il film comincia con un flashback sugli inizi di Judy Garland, quando era ancora una ragazzina che mieteva un grande successo a fronte del quale il prezzo da pagare era una vita piena di privazioni, tra le quali la più grande di tutte: non poter vivere la vita spensierata di una ragazza normale. Inoltre, per mettere a tacere le insoddisfazioni e le inquietudini, veniva forzata ad assumere dei farmaci dai quali sviluppò una dipendenza che l’avrebbe accompagnata, associata all’alcolismo e all’insonnia cronica, tutta la vita. I flashback vengono riproposti in occasione di quasi tutte le scene più drammatiche del film.
La storia comincia nel 1968, quando la Garland, ormai quasi dimenticata dal pubblico americano e senza il becco di un quattrino per aver dilapidato tutti i suoi averi, è costretta ad esibirsi a basso prezzo in teatri di infima categoria, coinvolgendo anche i figli. Cacciata via, per morosità, dal lussuoso albergo dove aveva abitato fino ad allora, si trova costretta a portare i bambini dal loro padre, l’ex marito Syd. Lei comincia a vagare nella notte e, conosciuto un giovane imprenditore (Mickey) ad una festa organizzata dalla figlia Liza (avuta dal matrimonio con Vincente Minnelli), resta a dormire da lui.
Il suo agente le propone di andare a fare una tournée in Inghilterra, dove il pubblico ancora la ama. Inizialmente, Judy si mostra riluttante, anche perché non vuole separarsi dai bambini, ma alla fine accetta. A Londra, dopo un inizio stentato dovuto all’ansia e all’alcol, i concerti cominciano ad andare bene e a fare il pieno di pubblico. Fondamentale l’aiuto ricevuto dalla sua assistente, Rosalyn, e l’amicizia con Stan e Dan, due sfegatati ammiratori omosessuali che hanno sofferto perché l’omosessualità era perseguita per legge e avevano trovato conforto nelle canzoni della Garland.
La situazione si evolve positivamente (addirittura Judy sposa Mickey) fino a quando l’ex marito le annuncia di voler tenere con sé i figli ed il marito le confessa che i suoi investimenti sono andati male. A questo punto Judy comincia a saltare i concerti o a presentarsi ubriaca sul palco, finché l’impresario annulla il contratto ed i concerti successivi. La cantante, pur prostata per aver sentito la figlia che le diceva di voler stare con il padre, trova la forza di fare un ultimo concerto che non conclude, ma che le consente di ritrovare l’amore del suo pubblico. Una nota di cronaca: la Garland morirà sei mesi dopo, all’età di 47 anni.
Dicevo prima che il film non mi ha colpito, non mi ha procurato sonnolenza, ma non mi ha entusiasmato. L’ho trovato banale, scontato, inutilmente lento in certi momenti, sviluppato secondo un canovaccio classico, senza alcun acuto. Anche il tentativo di inserire tematiche sociali e civili (i due amici omosessuali), risulta forzato, messo lì per svolgere il compitino. Da applausi, invece, l’interpretazione di Renée Zellweger, in versione mora e truccata benissimo per somigliare alla cantante, che ha reso benissimo la sofferenza, il tormento ed il disagio del personaggio, passato dal grande successo ad una situazione di depressione e alcolismo. La splendida interpretazione è stata, giustamente, premiata con l’oscar come migliore attrice del 2020.